Storia

Il Castello Conti Filo, riaperto al pubblico il 30 luglio 2011, è uno dei monumenti storici dell'alto Salento che meritava di essere riportato a condizioni di fruibilità dopo decenni di totale abbandono.
Attraverso l’ingresso monumentale del Castello è possibile entrare nell’ampio cortile lastricato su cui si affacciano, tra gli altri, l’ingresso alle antiche scuderie, dove è allestito un piccolo museo, quello alla fossa granaria, quella al salone delle decime, quello all’antica chiesa della Madonna della Salette (dove è presente uno dei pochi altari in legno avente uno stile barocco) e quello principale che conduce al piano nobile superiore. Qui, da una hall spaziosa è possibile entrare nelle varie anticamere, nelle sontuose stanze, nei saloni arredati con stile ed eleganza, negli ampi terrazzi pensili dotati di piscina idromassaggio e solarium, insomma un luogo dove chiunque potrà trascorrere una residenza piacevole all’insegna dell’eleganza e dell’ospitalità.

Breve cenno storico del Castello.

Nel 1588, la famiglia mesagnese Dormio acquistò il feudo di Torre Santa Susanna dai Palagano. Tale evento rappresentò sicuramente una svolta fondamentale per il nostro paese, in quanto, con questa famiglia, Torre passava sotto l’influenza della vicina Mesagne, che in quel periodo era interessata da uno sviluppo davvero sorprendente, e soprattutto perché, forse a causa del diretto interessamento dei Dormio, che si dimostrarono dei mecenati, Torre Santa Susanna cambiò il proprio aspetto.
La famiglia Dormio ebbe origine dal mesagnese Tiberio Senior che ebbe tre figli: Nicola, Antonello e Francesco. Di questi, Nicola fu notaio e fu colui che stipulò il 1° maggio 1555 l’atto relativo alla comunione dei beni tra i membri del clero di Mesagne. Nicola fu un intraprendente uomo d’affari; si diede al commercio dell’olio e seppe far fruttare al meglio il denaro guadagnato anche attraverso l’esercizio della professione. Sposatosi con la nobile mesagnese Lucrezia Corcioli, divenne poco dopo Signore del suffeudo di San Toma nel territorio di Mesagne. Da quel matrimonio nacque Tiberio Junior, il quale, alla morte del padre avvenuta nel 1586, ereditò quel suffeudo e poi diventò Signore del Feudo di Torre Santa Susanna per compera fattane in suo nome dalla madre Lucrezia, già diventata vedova. Donna Lucrezia Corcioli acquistò il feudo di Torre da Luzio Palagano, figlio di Goffredo e nipote del Luzio che aveva avuto il Feudo da Carlo V (atto del 28 settembre 1588 del notaio Cesare Guarino di Mesagne – Archivio di Stato di Brindisi, Archivio notarile, Mesagne, notaio Guarino Cesare, vol. 8 1589, c. 66r-70v) e lo donò al figlio Tiberio. Sta di fatto che don Tiberio volle onorare tal evento, commissionando al celebre architetto leccese Gabriele Riccardi, una scultura sul tema della Natività, che stesse a simboleggiare appunto la rinascita, e che fu posta nella Chiesa parrocchiale di Torre (oggi la si può ammirare nella Chiesa di Galaso).

Ma in questo periodo altre straordinarie opere d’arte confluirono nel nostro paese. Certamente della fine del Cinquecento sono la tela della Madonna del Rosario, la scultura del Cristo con la Croce e la tela del Battesimo di Gesù presenti nella Chiesa Madre. Don Tiberio Dormio, inoltre, giudicando poco adeguata la vecchia abitazione dei Guarini (sita nell'attuale zona di Largo Moccia), volle affrontare l’impresa della costruzione di un nuovo palazzo baronale, posto nell’immediata periferia del paese, che fosse imponente e degno del suo nome. La parte più antica dell’attuale Palazzo Baronale, conosciuto impropriamente col nome di “Castello”, da ascrivere al periodo di Tiberio Dormio, è quella che corrisponde al pianterreno. Non sappiamo se il Dormio avesse già ipotizzato una totale sopraelevazione dell’edificio con un piano nobile o se pensasse ad una sopraelevazione limitata ai torrioni angolari, né se la stessa fosse stata avviata dal Dormio o più probabilmente dagli Albricci o dai Lubrano. Rampe ancora esistenti nel corpo della muratura di entrambe le torri, in particolare di quella sud, attestano questa eventualità. Altro al momento non si può dire: il primo piano della torre nord fu totalmente ricostruito agli inizi dell’Ottocento e quello della torre sud dopo il 1950. L’edificio all’epoca dei Dormio si presentava con un corpo principale a cinque campate voltate a botte, chiuse lungo la strada ed aperte verso il cortile interno, affiancato ai due estremi da due torrioni. Nel complesso l’edificio presentava una conformazione planimetrica paragonabile a quelli fortificati cinquecenteschi. Nel periodo in cui Torre Santa Susanna appartenne alla famiglia Dormio, in paese furono edificati anche la Chiesa di San Giovanni ed il Convento di San Francesco (oggi dei Carmelitani), mentre la Chiesa Madre fu ristrutturata assumendo l'aspetto odierno.

Figli di don Tiberio furono Francesco e Lucrezia, che divenne suora di Santa Chiara in Lecce. Francesco ereditò, alla morte del padre, il feudo di Torre Santa Susanna e il suffeudo di San Toma. Nel 1596 riuscì ad acquistare anche quello di Crepacore, mentre nel 1607 quelli di San Giacomo, Surboli e Surrano. Ma accasciato dai troppi debiti, prima diede in fitto il feudo di Torre Santa Susanna al nobile genovese Pier Francesco Marino e poi vendette tutto (compreso il feudo di San Biagio) a Giovanni Antonio Albricci, Principe di Avetrana e Signore di Mesagne, per cinquantacinquemila ducati nel 1614 e finì nella miseria più assoluta, benché avesse conservato il titolo di Barone di Torre Santa Susanna. Morì nel 1626. Da Eleonora Panareo aveva avuto un unico figlio, Tiberio, che divenne medico e poeta eccellente, il quale visse e morì a Lecce e fece parte dell’Accademia dei Trasformati. La famiglia Dormio si estinse nel 1883.

Nel possesso del feudo di Torre Santa Susanna, ai Dormio subentrarono quindi gli Albricci. Questi ultimi certamente non furono all’altezza dei loro predecessori, almeno per quel che concerne le opere compiute in Torre Santa Susanna, anche se divennero ben presto una tra le più potenti famiglie di Puglia. Quella degli Albricci, era una nobile famiglia che proveniva da Como e non si conoscono i motivi per i quali, nella seconda metà del ‘500, i fratelli Andrea e Giovanni Antonio se ne vennero nella Provincia d’Otranto. Il primo dimorò a Ostuni e il secondo a Lecce. Quest’ultimo, sposato a Maria Priziza, nobildonna ostunese, ebbe la bellezza di dieci figli, dei quali sei furono maschi e quattro femmine. Dei maschi, Pompeo, Scipione e Gianmaria furono valorosi capitani, che persero la vita al servizio di Filippo II, re di Spagna, tanto che il sovrano onorò il loro padre Giovanni Antonio del titolo di Marchese di Salice Salentino. Egli però riuscì a venire in possesso anche dei feudi di Guagnano, Cellino, Erchie, Uggiano, Avetrana ed infine di quello di Mesagne. L’abituale dimora di questo signore divenne Salice e qui egli morì nel 1596. Erede dei titoli e dell’intero patrimonio avrebbe dovuto essere il primogenito Carlo, ma essendo questi morto prima di suo padre, Giovanni Antonio nominò suo erede il figlio di lui, il giovanissimo Giovanni Antonio Albricci II, che essendo ancora minorenne lo ebbe a tutore il prozio Andrea. Giovanni Antonio Junior sposò poi Giulia Farnese, appartenente ad una delle più antiche e nobili famiglie romane che annoveravano tra le loro fila persino papi e regine, e fu lui ad acquistare da Francesco Dormio la signoria di Torre Santa Susanna, San Biagio, Crepacore, Sorboli e Galasano. Anche lui dimorò a Salice.

Nel 1604, nominato da re Filippo II Principe di Avetrana, fece un viaggio nei suoi possedimenti durante il quale fu accolto festosamente dalla folla. Nel 1614, mentre era a Napoli dal Viceré, morì, ancora giovane, all’improvviso, e fu sepolto nella Chiesa di San Domenico Maggiore. Alla sua morte, la vedova Giulia Farnese, erede dell’usufrutto di tutti i feudi, gli successe sino alla maggiore età del figlio. Il loro matrimonio aveva dato tre figli: Giovanni Antonio, Francesca e Mario. Quest’ultimo, nato nel 1613, educato dai Gesuiti, si portò a Roma dove studiò le lettere. Fu benvoluto dai papi Alessandro VII, Clemente IX e Clemente X, i quali lo destinarono alla nunziatura apostolica di Venezia. Nominato Cardinale da Clemente X, fece parte del conclave che nel 1676 elesse papa Innocenzo XI e morì infine nel 1680. Giovanni Antonio III nacque invece nel 1607. Fu benvoluto dai suoi sudditi e a lui Epifanio Ferdinando dedicò gran parte delle sue opere. La prodigalità di questo Principe lo ridusse però in condizioni disagiate, nonostante che nei primi anni egli avesse addirittura accresciuto il patrimonio di famiglia. Egli, infatti, aveva comprato anche San Vito dei Normanni e il contiguo feudo di San Giacomo. Dopo alcuni anni però cominciò a sperperare le sue fortune. Principe di Avetrana, Marchese di Salice, Signore di Mesagne, di San Vito, di Guagnano, di Cellino, di Uggiano, di Erchie, di Torre santa Susanna e di altri innumerevoli feudi meno rilevanti, cominciò a sprofondare nei debiti anche lui, come era successo a Francesco Dormio. Nel 1629 vendette Uggiano, nel 1631 San Vito, nel 1632 Torre Santa Susanna coi feudi di San Biagio, Surbole, Crepacore e Galesano a Domenico Lubrano, duca di Ceglie Messapica, nel 1638 Cellino e poi Guagnano e Salice. I creditori misero mano alla restante sua signoria e nel 1646 anche Mesagne fu venduta all’asta a Benedetto De Angelis per 125.000 ducati. Accasciato dalla sua triste condizione economica, Giovanni Antonio III trascinò gli ultimi anni della sua vita a Roma, sostenuto dall’obolo di una sua zia e, celibe, morì in quella città, determinando l’estinzione del suo gran casato.

Domenico Lubrano, Duca di Ceglie Messapica, ma d’antica famiglia nobile napoletana, visse nel castello di Ceglie dove morì nel 1654 e gli successe il figlio Antonio che, nominato Marchese di Torre Santa Susanna, vendette però il suo feudo a Carmine De Angelis, Principe di Mesagne, nel 1660, forse anche a causa delle conseguenze della passata pestilenza del 1656.
Il periodo della signoria dei De Angelis rappresentò il secondo momento felice, dopo quello dei Dormio, per il nostro paese, almeno dal punto di vista artistico. Capostipite di questa famiglia fu Benedetto De Angelis, il cui figlio Nicola ebbe la fortuna di sposare Vittoria Capano, una donna di straordinarie qualità, innamorata dell’arte e sensibile mecenate. A loro due si deve se Mesagne e la stessa Torre Santa Susanna subirono un radicale processo di ridefinizione dei propri centri urbani e videro le componenti interne gareggiare per rapportarsi ai nuovi gusti e alle moderne sintassi decorative. Lo stesso fenomeno che quasi contemporaneamente si andava delineando nella città di Lecce, dove per impulso del Vescovo Pappacoda si stava verificando un nuovo assetto, così stava avvenendo soprattutto a Mesagne, ma anche a Torre. E mentre a Lecce si affermava nel Seicento la personalità di Giuseppe Zimbalo nel campo della scultura e dell’architettura, a Mesagne si affermò la figura dell’architetto Francesco Capodieci, nato nel 1605 da un tale Zuccaro e da Cecilia Verardi. Intrapresa la carriera ecclesiastica, divenne sacerdote, ma appassionato di matematica e geometria studiò a Napoli e Roma dove divenne architetto. Amico fraterno del Cardinale Mario Albricci Farnese, fu subito richiesto per ideare e progettare cappelle, chiese, palazzi, fortificazioni, piazze, ecc., soprattutto dai Principi De Angelis. Egli infatti in Mesagne ristrutturò il Castello, che divenne la dimora dei Principi, e fu l’ideatore della splendida Piazza dei Del Balzo Orsini, con il capolavoro barocco che è la Chiesa di Sant’Anna, fatta erigere dalla Principessa come voto per una malattia del figlio, il principino Carmine. Con lui, soprattutto nella Chiesa di sant’Anna, lavorò lo scultore Giuseppe Cino, allievo dello Zimbalo e uno dei fautori della rivoluzione barocca in Lecce.

Il Principe Nicola De Angelis e la Principessa Vittoria Capano, agendo da mecenati, continuarono a richiedergli ulteriori progetti anche per realizzazioni architettoniche di grossa mole. E fu così che sicuramente al Capodieci affidarono il cantiere che doveva completare finalmente il Palazzo Baronale di Torre Santa Susanna, iniziato molti anni prima da don Tiberio Dormio e mai completato. Lo dimostra il monumentale portale a bugnato del palazzo, giacché il Capodieci fu molto interessato da questo genere di stile che aveva ricavato dalla conoscenza delle opere di Sebastiano Serlio (1475-1554), ed il fatto che particolarità della sua arte fosse l’essenzialità e la purezza delle forme architettoniche, proprio come il prospetto del Palazzo Baronale di Torre. Simili portali furono realizzati nel Castello di Mesagne, nel Palazzo Ducale dei Venturi di Minervino di Lecce, dei Libetta di Carpignano Salentino, dei Filomarino di Maglie, dei Valente di Casarano e dei Ferraro di Parabita. Francesco Capodieci fu un architetto amante delle belle forme architettoniche, la cui plasticità non doveva confondersi con gli ornamenti. Con lui era la ragione e il calcolo e non la fantasia degli artisti barocchi leccesi a dominare la scena. Fu piuttosto un artista che si ispirava all’arte del tardo Cinquecento, che a quella del Seicento.

Nel Castello di Torre Santa Susanna furono chiusi gli ambienti di deposito a piano terra, fu avviata la sopraelevazione a partire dal lato sud, realizzando nel cortile una rampa d’accesso esterna al primo piano ed una distribuzione interna oggi non più visibile, ma di cui restano tracce di un grande camino sulla copertura e fu scavata nel cortile una fossa granaria a cui si accedeva con una scala ad una rampa ubicata sotto la rampa principale di accesso, nonché un’altra foggia attigua per la raccolta dell’acqua piovana, fornita di un pozzo per il prelievo. Nicola De Angelis desiderava erigere monasteri e conventi nei suoi feudi e il Capodieci fu incaricato di progettare in particolare due monasteri: uno, quello per gli Alcantarini, per Torre Santa Susanna, e l’altro per Erchie, che però non furono mai costruiti. Furono forse i De Angelis infine a far dono alla Chiesa Madre di Torre Santa Susanna del quadro raffigurante San Carlo Borromeo, creduto fino a pochi anni fa di Giovanni Papagiorgio, un pittore ateniese di Manduria, ma poi definitivamente attribuito a Giampietro Zullo, pittore mesagnese, figlio di Matteo Zullo e di Rosa Profilo, nato nel 1557 e morto nel 1617 Non si esclude che in tale fervore urbanistico, tutte le chiese di Torre Santa Susanna siano state ritoccate, assumendo per molti versi l’attuale aspetto, in particolare la Chiesa di Santo Stefano, che però non fu completata per la morte del Capodieci, a ottantotto anni, che avvenne il 17 agosto del 1688. Alla morte del Principe Nicola, Vittoria Capano aveva voluto che l’architetto Capodieci costruisse l’imponente macchina su cui deporre la salma.

A Nicola De Angelis e a Vittoria Capano successe il figlio, Principe Carmine De Angelis, il quale continuò la volontà dei genitori, portando a termine tante opere già cominciate e iniziandone di nuove. E fu forse per questo gran fervore urbanistico, per questo mecenatismo esasperato, che egli contrasse tantissimi debiti tanto da essere costretto a vendere il feudo di Torre Santa Susanna nel 1722, prima che gli fosse sequestrato lo stesso feudo di Mesagne dal Regio Consiglio di Napoli nel 1731. Il Principe De Angelis morirà a Napoli alcuni anni dopo, ormai in disgrazia e inviso ai Mesagnesi per motivi giurisdizionali, ma la Chiesa di Sant’Anna in Mesagne progettata dal Capodieci e lavorata nelle pietre d’intaglio dal maestro scultore Giuseppe Cino e la stessa Piazza Del Balzo Orsini rimangono a testimoniare la grandezza, i fasti ed il declino di una potente famiglia di feudatari quale fu quella dei De Angelis, Principi di Mesagne e Signori di Torre Santa Susanna ed Erchie.

Il feudo di Torre Santa Susanna, nel 1722, era stato venduto dal Principe Carmine De Angelis al conte Pietro Aurelio Filo di Altamura, che ne aveva sposato la figlia, Eleonora De Angelis. Probabilmente dovette trattarsi di una vendita formale per salvare il feudo da un possibile sequestro per debiti da parte del Regio Consiglio di Napoli, che difatti alcuni anni dopo sequestrò ai De Angelis il feudo di Mesagne. La famiglia Filo, o Philo, era d’origine greca e nobile fin dal 1200 ed era di Altamura; fu onorata con titoli, privilegi e ordini cavallereschi e investita di più feudi. Fra i suoi membri più noti sono da ricordare Pietro, arcivescovo di Acerenza nel 1279; Antonio, sindaco dei nobili di Altamura nel 1441; suo figlio Giovanni, in seguito al passaggio da Altamura nell’ottobre del 1466 del Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme a Rodi e ai privilegi da questi accordati ai nobili di Altamura, si trasferì a Rodi e, con credenziali del 18 novembre del 1477, fu nominato, dal Gran Maestro D’Aubusson, ambasciatore con l’incarico di concludere e di firmare la pace col re di Tunisi e di costituire ivi un consolato di Rodi; Pasquale, fratello di Giovanni, che molto contribuì alla conquistadel principato di Taranto da parte di Ferrante d’Aragona e, quale sindaco dei nobili, fece sottomettere Altamura e a nome di questa prestò giuramento di fedeltà agli Aragonesi; Roberto, notaio apostolico e vicario vescovile di Martorano il 9 aprile 1590; Nicola Antonio, prelato e cameriere segreto di Sua Santità Clemente X e infine Bisanzio Filo, Vicario Generale di Altamura, di Trani e di Bitonto, fu nominato Vescovo di Oppido l’8 novembre del 1697 e Vescovo di Ostuni l’11 aprile del 1707. Nel 1554 il casato dei Filo ebbe diploma di nobiltà direttamente da Carlo V.

Con i Filo, il Castello di Torre Santa Susanna fu per la prima volta utilizzato come dimora nobiliare, visto che in precedenza nessuno lo aveva ancora di fatto abitato. Per questo motivo Pietro Aurelio Filo continuò la sopraelevazione dell’edificio di altre due campate per rendere il piano nobile più ampio ed abitabile, ma l’impegno finanziario non dovette essere comunque eccessivo. D’altronde ancora nel 1753 con il catasto onciario di Torre Santa Susanna (Arch. Di Stato di Brindisi, vol. 30) a fronte di numerose proprietà della famiglia feudale non si fa alcun cenno del palazzo: Eleonora De Angelis, già vedova del conte Filo, denuncia come corpi burgensatici la cantina sotterranea davanti la Piazza, tre mulini e la masseria Cociolina con chiesa, case, ecc., oltre a numerosi appezzamenti di suolo e abitazioni date in fitto; i figli Massenzio Filo, Vescovo di Castellaneta, e Carlo Filo, la masseria Guidone..

Figli di Pietro Aurelio Filo e di Eleonora De Angelis furono appunto Massenzio e Carlo. Il primo intraprese la carriera ecclesiastica; nominato Vicario Generale di Altamura, divenne Vescovo di Castellaneta l’11 maggio del 1733 e poi Vescovo assistente al Soglio Pontificio; fondò con propri legati una biblioteca e un ospedale. Carlo, alla morte del padre avvenuta nel 1750, prese il feudo di Torre Santa Susanna e a sua volta ebbe, da donna Giulia D'Aquino, due figli: Pietro e Massenzio. Il primo, che avrebbe dovuto ereditare il titolo della Contea di Torre, morì però precocemente nel 1764 e pertanto il Feudo, alla morte di Carlo, passò a Massenzio Filo Junior, che si può considerare l’ultimo feudatario di Torre Santa Susanna, trovandosi lui nel momento in cui, nel 1810, fu proclamata l’eversione della feudalità. Massenzio Filo morì poi nel 1821. Fu lui a finanziare la costruzione della cappella a Maria Immacolata nel Convento, in cui sotto il dipinto raffigurante Sant’Andrea Avellino, protettore della morte improvvisa, si leggeva “MDCCLXXXII – LEQUILE”. Durante la Signoria di Carlo e di Massenzio il castello di Torre Santa Susanna ebbe gli interventi più importanti e significativi. Difatti in quel periodo fu completato tutto quanto il piano nobile, unificando il paramento della facciata completo di cornice marcapiano e cornice di coronamento, e fu definitivamente segnata la cadenza modulare delle aperture con dei rilievi a mo’ di capitello sulla cornice marcapiano; al piano terra fu individuato uno degli ambienti di deposito adiacente all’androne d’ingresso, il quale fu isolato e trasformato in cappella gentilizia con il frontone principale a timpano sulla strada, secondo accesso dall’androne e possibilità di accedere dal piano nobile ad un soppalco della muratura. Tale cappella trova la sua ragion d’essere nel fatto che Massenzio Filo Senior, fratello di Carlo, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica sino a diventare poi Vescovo di Castellaneta, mentre il nipote Massenzio Junior, figlio di Carlo Filo, in quanto secondogenito, aveva anche lui intrapreso gli studi religiosi, prima che la morte del fratello primogenito Pietro lo portasse d’un tratto a capo della famiglia. Subito dopo tale innovazione, il completamento della sopraelevazione del Castello portava a rivedere anche il sistema di accesso al piano nobile: si abbandonava il sistema promiscuo (padroni e servi) della rampa esterna, ancora oggi esistente, e più adatta ad una masseria che a un palazzo baronale e gli si sostituiva una nuova proposta tendente ad utilizzare come accesso l’ambiente situato tra la cappella di nuovo impianto e la torre a nord, che fu dotato di un portoncino d’accesso con paraste ed elementi decorativi, ma che si trovava in una posizione assai infelice non solo per problemi distributivi che innescava al piano nobile, ma anche perché il leggiadro portoncino era schiacciato dalla mole incombente del nuovo volume adibito a stalle realizzato in quegli anni e che forniva al piano nobile un vasto terrazzo isolato, fornito di fioriere, che si apriva sul vasto giardino murato che circondava il palazzo.

Ma la soluzione non dovette apparire ottimale, visto che non solo oggi il portoncino è murato ed inutilizzabile ed all’interno dell’ambiente non si nota alcun accesso al sistema monumentale, ma l’accesso fu ricavato, fin dal tempo di Bisanzio Filo, figlio e successore di Massenzio, e, comunque, prima dell’Unità d’Italia, riducendo la lunghezza delle stalle con l’inserzione a forza di un volume contenente una scala a due rampe, mentre una distribuzione razionale degli ambienti al piano nobile si otteneva soltanto aprendo sul fronte nord della torre nord e sul fronte principale del palazzo, all’incrocio della torre nord, finestre che non erano previste nell’impianto originario… un taglio quest’ultimo che, per rispetto della simmetria, sarebbe stato riproposto sul frontone principale anche in angolo con la torre sud.
Certamente la famiglia Filo, come un po’ tutte le famiglie aristocratiche che avevano goduto sotto i Borboni una posizione privilegiata, non potette rimanere indifferente alla suggestione di un’eventuale restaurazione dello status quo ante subito dopo l'Unità d'Italia. Essa però continuò a restare chiusa nel suo castello, in uno sprezzante ed orgoglioso isolamento, castello che ebbe nel secondo Ottocento anche qualche importante rifacimento. Da Bisanzio Filo la costruzione era toccata prima al figlio Pasquale (III Conte e Cavaliere dell’Ordine di Malta), sino al 1894, e quindi al figlio di questi, Edoardo, che era nato nel 1853 ed aveva sposato, nel 1878, donna Giulia Granito di Belmonte (1856-1920) e che morì nel 1905. All’inizio fu realizzato sul lato a sud del cortile, in adiacenza alla rampa d’accesso esterna al piano nobile, un vasto ambiente, simmetrico alle stalle poste a nord, da adibirsi a deposito o ad ambiente di lavoro. Poi, secondo le proposte di un rinascente neo-medievalismo, il palazzo fu coronato con l’aggiunta dei merli che ne completarono il disegno. L’inutilità di conservare al piano terra tutta una serie di ambienti di deposito (non più motivati da decime feudali) comportò il loro isolamento, l’apertura di una serie di porte con sopraluce sul prospetto principale, la chiusura delle finestre sul cortile interno ed il loro affitto, uno per uno, come botteghe. La famiglia Filo finì per stabilirsi definitivamente in Napoli e nel Castello di Torre veniva a trascorrere solo il periodo estivo. Il ramo principale dei Filo finirà per estinguersi nei primi del Novecento. A Torre Santa Susanna, nel cimitero, esiste ancora la tomba di famiglia in cui sono sepolti Goffredo Filo, figlio di Bisanzio, nato a Napoli nel 1865 e morto a soli 39 anni ed Angelo, figlio di Edoardo, nato a Napoli nel 1894 e morto a soli 16 anni; tomba su cui ancora oggi una mano ignota lascia qualche mazzo di fiori, di tanto in tanto.

Dopo il lungo mandato come sindaco del paese di Vincenzo Cervellera, in un momento in cui nessuno più ambiva alla carica di Sindaco, visto il drammatico momento di crisi economica, politica e morale conseguente alla fine del conflitto mondiale, pervenne a capo dell’Amministrazione Ignazio Sollazzi ( dal novembre del 1920 al marzo del 1923), il quale aggiudicò l’appalto della Esattoria al latianese Angelo D’Ippolito, uomo di sua fiducia. Tale incarico dovette fruttare considerevoli vantaggi al D’Ippolito il quale poi cedette la gestione dell’Esattoria, dopo lungo tempo ed in cambio di una ragguardevole somma, alla Cassa di Risparmio di Puglia. Nel 1947 il D’Ippolito acquistò per circa quaranta milioni di lire il Castello di Torre Santa Susanna dagli eredi dei Conti Filo e in tale circostanza l’amministratrice dei beni dei Filo, Rosina Rodi, in cambio della sua mediazione, ebbe tutto il giardino annesso al Castello sul lato sud, in parte poi ceduto per suolo pubblico ed in parte conservato per uso personale. Il Castello fu ceduto in fitto all'Amministrazione comunale in varie circostanze: fu utilizzato come lazzaretto durante l'epidemia di vaiolo nei primi del Novecento, come scuola elementare e come sede di reparti militari durante il II conflitto mondiale. Passato poi agli eredi D’Ippolito, subì un grave degrado, sino a quando nel 2003 fu acquistato dalla famiglia Trinchera che ha promosso un progetto di restauro per il suo recupero.
 

LA CHIESA DEL CASTELLO

Verso la metà del '700, Carlo Filo ereditò dai genitori Aurelio ed Eleonora il feudo di Torre Santa Susanna col relativo castello, mentre suo fratello Massenzio intraprese la carriera ecclesiastica, divenendo poi vescovo di Castellaneta. E fu proprio per tale motivo che uno dei locali del pianterreno del Castello, precedentemente utilizzato come deposito, fu individuato per essere destinato a Cappella padronale. La Cappella, dotata di un matroneo e di uno splendido altare barocco in legno (l’unico nella provincia), e sulla cui facciata si trova incastonato lo stemma di mons. Massenzio Filo, risulta essere stata dedicata successivamente alla Madonna della Saletta, culto che si diffuse tra la popolazione di Torre Santa Susanna soprattutto nei primi anni del ‘900. Una piccola statua della Madonna della Saletta era venerata nella Cappella e ogni anno, il 19 settembre, un rito molto strano consisteva nel cospargere il pavimento attorno la statua e lo stesso altare con delle rose durante la messa. Il culto fu talmente sentito che molte bambine nate in quel periodo furono battezzate con il singolare nome di “Saletta”, tanto da eguagliare in quantità quelle che venivano chiamate col nome della protettrice. La venerazione verso questa Madonnina cominciò a scemare allorquando i D’Ippolito di Latiano dismisero la Cappella, utilizzandola per altri fini, mentre la statua fu spostata nella chiesa di Santo Stefano, dove da più di sessant’anni giace quasi dimenticata in una piccola nicchia posta accanto all’altare principale.
Nel 2002 il Castello, dopo un lungo periodo di completo abbandono che ha rischiato di trasformarlo in un cumulo di rovine, è stato acquistato dalla famiglia Trinchera che ora si sta adoperando per il completo restauro. La prima determinazione assunta dai nuovi proprietari è stata quella di abbattere una indecorosa scala fatta erigere dai precedenti possessori che obliterava l’antica Cappella, per restituire la stessa al culto dei Torresi (la chiesa del castello fu benedetta l’8 dicembre del 2006 da don Raffaele Giuliano). Ma molti continuano a chiedersi l’origine e il motivo della denominazione Madonna della Saletta, anche perché risulta che sia una delle poche chiese in tutta la nostra Regione con tale intitolazione.

Il nome di Madonna della Saletta è un’alterazione dialettale della più esatta denominazione che è “Madonna de La Salette”, Vergine apparsa a due pastorelli in una località incastonata nelle Alpi della Francia meridionale il 19 settembre del 1846, ben dodici anni prima, quindi, dell’apparizione a Lourdes della Vergine a Bernadette. La località ove si verificò tale apparizione si trova in prossimità di un piccolo borgo montano che si chiama Corps. A est di questo paese, si apre una vallata in salita che conduce al comune di La Salette-Fallavoux, composto da una dozzina di piccoli villaggi, circondati da montagne che si elevano sino a 1800 metri. La pastorella di 15 anni si chiamava Melanìe Calvat e il giovane pastore di 11 anni aveva il nome di Maximin Giraud. Appartenevano entrambi a famiglie poverissime e non sapevano né leggere né scrivere.

La mattina di quel sabato, 19 settembre 1846, Maximin e Melanìe partirono insieme per condurre al pascolo quattro mucche ciascuno, una capretta e un cane. Verso mezzogiorno, i due pastorelli fecero abbeverare gli animali ad una sorgente e quindi consumarono il loro frugale pasto, a base di pane e formaggio. Addormentatisi profondamente, dopo un paio d’ore si svegliarono e, non scorgendo più le bestie, corsero sul colle per cercarle. Trovatele, si tranquillizzarono e cominciarono a scendere il colle, ma fatti alcuni passi, Melanìe fu la prima ad accorgersi all’improvviso di un globo di luce nel luogo della sorgente, dove avevano lasciato i tascapane. La paura si impossessò dei due ragazzi. Melanìe lasciò cadere il suo bastone, mentre Maximin cercò di riprenderlo per potersi difendere. Ma a quel punto i ragazzi si accorsero che all’interno del globo di luce c’era la figura di una donna, che essi chiamarono sempre “la bella Signora”, seduta su una roccia, coi gomiti poggiati sulle ginocchia ed il viso nascosto tra le mani e la sentirono singhiozzare. La donna si alzò lentamente e disse loro: “Avvicinatevi, figli miei, non abbiate timore, sono qui per annunciarvi un grande messaggio”. La Signora era vestita come le donne del villaggio: un abito che scendeva fino ai piedi, uno scialle, una cuffia sulla testa, un grembiule annodato attorno ai fianchi. La cuffia, l’orlo dello scialle e i piedi erano ornati da ghirlande di rose. Accanto alle rose dello scialle era visibile una pesante catena, mentre nel petto portava un crocifisso con ai lati un paio di tenaglie e un martello.
La bella Signora comunicò ai due bambini alcuni “segreti” e alcune premonizioni circa il destino degli uomini e quindi cominciò a muoversi, attraversò il ruscello e senza voltarsi ripeté: “Andiamo, figli miei, fatelo conoscere a tutto il mio popolo”. Risalì quindi il sentiero sinuoso che portava al colle e si elevò da terra; i due pastorelli La raggiunsero e si accorsero che Lei guardava prima il cielo e poi la terra. A quel punto la bella Signora iniziò a fondersi nella luce e quest’ultima, a sua volta, scomparve.

Testimoni di un evento così straordinario, Maximin e Melanìe ritornarono a valle, e fu lo stesso Maximin a darne notizia sia al suo padrone che a quello di Melanìe, che lo riferirono subito al parroco, il quale ne parlò nella sua predica domenicale e informò l'arciprete di Corps. Maximin Giraud fu interrogato dal sindaco del paese dopo appena due giorni dall'evento. L'arciprete di Corps, il 4 ottobre, informò dell'accaduto il vescovo di Grenoble. La notizia dell'apparizione si diffuse rapidamente. Il padre di Maximin, che non era credente, si convertì l'8 novembre. Il primo pellegrinaggio ebbe luogo il 24 novembre, guidato dai due bambini veggenti. Il 31 maggio 1847 al pellegrinaggio in cui venne piantata la croce sulla montagna parteciparono 5.000 fedeli. Nell'ottobre del 1846 e nel febbraio del 1847 i due veggenti furono interrogati da due sacerdoti diocesani. Il 16 aprile 1847 vennero ancora interrogati da un giudice di pace di Grenoble. In tale data si registrò la prima guarigione miracolosa a suor Clair-Peirron, ad Avignone. I due bambini vennero interrogati ancora da un altro sacerdote il 29 maggio dello stesso anno e il 22 luglio il vescovo di La Rochelle compì un pellegrinaggio personale a La Salette e interrogò Maximin e Melanìe. Il 15 agosto un'altra guarigione fu dichiarata su Melanìe Gamon, a Corps. Il 19 settembre, primo anniversario dell'apparizione, ebbe luogo un pellegrinaggio di 50.000 fedeli.

A luglio di quello stesso anno il vescovo di Grenoble chiese a due eminenti professori del seminario di Grenoble di condurre una indagine dettagliata sull'apparizione e di redigere una relazione completa, che fu conclusa il 15 ottobre del 1847. La relazione fu poi sottoposta ad una commissione di investigazione di sedici esperti che tenne ben otto sessioni, in due delle quali furono presenti anche i due pastorelli che furono lungamente interrogati. Quando la commissione terminò i lavori, approvò la relazione che fu pubblicata il 26 giugno 1848 e inviata al papa Pio IX per la definitiva approvazione della Santa Sede. Il 19 luglio del 1851 l'apparizione fu ufficialmente consacrata con il titolo di “Nostra Signora de La Salette”.
Dei due pastorelli veggenti, Maximin Giraud ebbe una vita alquanto irrequieta. Dopo l'apparizione de La Salette frequentò la scuola con modesti risultati. Entrò nel seminario per uscirne subito dopo e condusse una vita errabonda, in cerca di se stesso e della sua identità. Fu impiegato in un ospizio, tentò poi di studiare medicina, fu impiegato in una farmacia, si arruolò a Roma nel corpo degli Zuavi pontifici, ritornò in Francia e pieno di debiti e malato gravemente, ad appena quarant'anni morì a Corps il 1° marzo 1875 e fu sepolto nel piccolo camposanto del paese, ma il suo cuore giace nella grande basilica che nel frattempo era sorta sul luogo dell'apparizione, tra le montagne.

Melanìe Calvat, anch'essa segnata da quell'evento straordinario, entrò in una scuola di suore, ma finì per non essere ammessa ai voti. Partì per l'Inghilterra, poi si recò a Marsiglia nel 1863 e dopo qualche giorno trascorso a Corps e a La Salette, accettò l'invito del vescovo di Castellammare di Stabia (Na), partendo dalla Francia il 21 maggio del 1867. Rimase nella città del Golfo di Napoli diciassette anni. A Castellammare di Stabia Melanìe scrisse i suoi segreti nel memoriale “Visione dei costumi e delle opere alle quali saranno dedicati gli Apostoli degli ultimi tempi” e la Regola per una eventuale congregazione religiosa. Intanto, nel 1875 arcivescovo di Lecce, con la sua approvazione, fece pubblicare per la prima volta “Il segreto di Melanìe”. Nel 1892, Melanìe lasciò Castellammare di Stabia e, aderendo all'invito del predetto arcivescovo, si trasferì nella città di Galatina (Le), dove rimase per cinque anni in una casa presa in affitto. E a Galatina ricevette la visita di un sacerdote, il futuro santo messinese Annibale Maria Di Francia che la convinse a raggiungerlo a Messina per assumere la direzione della sua Istituzione, le “Figlie del Divin Zelo del Cuore di Gesù”. Ritornata ancora una volta in Francia, dopo qualche mese trascorso a Moncalieri in Piemonte, si stabilì presso don Combe, parroco di Diou. Quando nei convegni e nelle funzioni veniva invitata a parlare del fatto del 19 settembre 1846, ritrovava la semplicità e la lucidità del suo primo racconto, conforme in maniera costante a quello di Maximin, come quando ritornò l'ultima volta in pellegrinaggio a La Salette il 18 e il 19 settembre del 1902.

Sentendo approssimarsi la fine di quella lunga e tormentata vita, Melanìe scrisse al suo antico confessore, il futuro beato Alfonso Maria Fusco, di trovarle un luogo nel quale non fosse conosciuta, per vivere nel nascondimento gli ultimi suoi giorni. Padre Fusco ne parlò al Rettore del Santuario di Pompei, il domenicano padre Carlo Cecchini che le offrì ospitalità, ma essendo il celebre Santuario di Pompei meta di pellegrinaggi, Melanìe rifiutò, ma quando proprio in quel periodo il Rettore fu nominato vescovo di Altamura (Ba), e quindi la invitò in questa città pugliese, lei accettò, arrivando dalla Francia il 16 giugno del 1904, sconosciuta a tutti. Alloggiò in varie case, anche nel palazzo delle signorine Giannuzzi che forse sapevano qualcosa, uscendo poco, ma recandosi ogni mattina in Cattedrale per assistere alla celebrazione della Messa e ricevere l'Eucaristia, trattenendosi poi a lungo a pregare nella Cappella dell'Addolorata. Colpita da una forte febbre, morì in solitudine nella notte fra il 14 e il 15 dicembre del 1904. La trovarono il giorno dopo, verso le ore 10,00 ancora inginocchiata, in atto di preghiera. Il suo funerale si svolse nella Cattedrale di Altamura, presente tutto il Capitolo, e in quella occasione il vescovo mons. Cecchini rivelò la vera identità della “Signora Francese” , come veniva chiamata in paese. E ad Altamura è ancora sepolta nella chiesa dell'Immacolata delle suore Figlie del Divino Zelo, dove sulla lapide è scolpita l'immagine della Madonna de La Salette che abbraccia la veggente per portarla in cielo.
Fu proprio tale circostanza che spinse i Filo, originari di Altamura, a far intitolare la Chiesa del loro Castello di Torre Santa Susanna a “Nostra Signora de La Salette”. Una venerazione così forte da trovare pieno accoglimento negli abitanti del paese! Purtroppo alcune vicende collegate ad un cattivo utilizzo della Chiesa da parte della famiglia che sostituì i Filo nel possesso del Castello, nonché il passare del tempo di quasi tre generazioni hanno fatto in modo che questa storia nel nostro paese venisse quasi del tutto dimenticata.
Sarebbe auspicabile, ora che il Castello e la sua Chiesetta sono stati restaurati, che la venerazione nei confronti della Madonna della Saletta ritornasse ai vecchi splendori e che l'Amministrazione di Torre Santa Susanna si adoperasse per chiedere un gemellaggio con il comune francese di La Salette-Fallavoux, organizzando magari, attraverso qualche associazione di volontariato, un pellegrinaggio allo splendido Santuario di “Nostra Signora de La Salette”.

Dott. Antonio Trinchera
(Società di Storia Patria per la Puglia)